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jueves, 18 de diciembre de 2008

IURIS INTERNACIONAL

En un esfuerzo por enriquecer los conocimientos jurídicos el Centro de Investigación Jurídica Iuris Veritatis busca establecer lazos con reconocidos personajes en el Ámbito Jurídico Mundial; razón por la cual gentilmente el doctor Lucio Pegoraro, ilustre constitucionalista italiano, accedió en escribir un artículo para nuestra Institución; el cual publicamos a continuación:

Vecchio e nuovo nella Costituzione italiana
a 60 anni dalla sua approvazione
La Costituzione italiana rappresenta un testo emblematico, significativo, importante nel contesto del costituzionalismo del secondo dopoguerra: una Costituzione che ha attinto da altre esperienze, ma che a sua volta è stata imitata, che si è imposta quale modello, come ad esempio da parte delle Cortes costituenti spagnole nella seconda metà degli anni ’70, e poi da numerose Costituzioni dell’Est europeo dopo la caduta del muro di Berlino. Una Costituzione che al pari di altre ha sancito la prevalenza del costituzionalismo sulla democrazia formale, basata sul predominio della maggioranza; che ha consacrato dunque la superiorità di un patto fondante, condiviso da tutti o quasi tutti, sulla brutale legge dei numeri che governa le decisioni quotidiane. Un patto, che richiede una sostanziale concordanza su alcuni principi basilari, e la convinzione che le regole del gioco non possano essere alterate, a prescindere da ciò che la Costituzione stessa dica o non dica.
Da sola, nessuna Costituzione è in grado di risolvere i problemi di ciascun ordinamento: essa deve trovare ancoraggio nella cultura politica, e confidare nella capacità delle forze che la attuano, ciascuna esprimendo il proprio indirizzo, di rispettarsi reciprocamente. Ciò è quanto avvenne in sede di Assemblea costituente, la quale, formata da partiti che andavano dal comunista al liberale, condivideva alcuni valori, e dove il consenso era cementato non solo dall’opposizione al passato regime, ma semmai da una visione ideale e prospettica, nella quale l’antifascismo rappresentava soprattutto il rifiuto della negazione della libertà. [V. ad es. E. Opocher, F. Benvenuti, G. Berti, V. Cavallari, E. Gallo (a cura di), Giustizia e Resistenza, Marsilio, Padova, 1977, con scritti, tra gli altri, di L. Paladin, U. Scarpelli, V. Grevi, G. Vassalli, G. Bettiol, G. Neppi Modona, A. Trabucchi, A. Galante Garrone e altri; come pure Aa.Vv., Le idee costituzionali della Resistenza, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 1997.] Per questa ragione, la Costituzione era adatta a far funzionare il Paese, e se oggi si agitano dubbi sul fatto che essa sia in grado di consentirci di governare bene, le colpe non vanno ascritte alla Costituzione stessa, ma alla sua attuazione. Per forza di cose, il testo di una Costituzione deve infatti essere sintetico, enunciare le grandi direttrici; mentre sta poi alla legge, alle convenzioni costituzionali e alla giurisprudenza costituzionale dare attuazione a quanto la Costituzione solo accenna.
È – quella italiana – una Costituzione in cui la rigidità integra la pura e bruta democrazia giacobina, prevedendo un controllo reciproco e un bilanciamento non solo tra i classici poteri dello Stato, ma anche grazie a soggetti collocati fuori dalla tradizionale ripartizione di Montesquieu. Con un Capo dello Stato chiamato a fungere da arbitro tra maggioranza e minoranze, anche la Corte costituzionale gioca un ruolo essenziale tra Governo e opposizione, tra centro e periferia, tra Stato e cittadini. Come accade in molti altri Paesi del mondo, la nostra Corte ha offerto un contributo importantissimo nell’attuazione e nell’interpretazione del testo, dando un senso e attualizzando le sue parole spesso vaghe. Il potere popolare, sia esso esercitato in modo diretto o, come di solito avviene, attraverso la rappresentanza, ha bisogno di freni e contrappesi ulteriori rispetto a quelli inventati dall’illuminismo francese; esige insomma una sorta di potere aristocratico, basato sulla sapienza dei giudici costituzionali, come pure altri poteri non giuridici. Penso a quello rappresentato dalla libera stampa; penso allo stesso potere burocratico, chiamato a dare la sua lettura dei testi normativi; penso al potere economico che, come in tutti gli ordinamenti liberal-democratici, dovrebbe stare separato dal potere politico.
È peraltro – quello della Costituzione italiana – un testo che si colloca a metà strada tra due concezioni, radicate nel dibattito, alimentato nel ’700 in Europa soprattutto da Condorcet, e in America da Jefferson e Paine, sul (denegato) diritto di una generazione a vincolare quelle successive, «dei morti di vincolare i vivi» (Tra i libri più stimolanti in materia v. C. Klein, Théorie et pratique du pouvoir constituant, Puf, Paris, 1996, spec. p. 141 ss.), e dalla contrapposta idea, espressa dal Presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti Marshall in McCulloch v. Maryland del 1819 – che «nell’ideare un sistema che pretende di durare nei secoli, non devono essere persi di vista i cambiamenti che i secoli arrecheranno», e dunque le parole della Costituzione «devono (…) adattarsi alle varie crisi delle vicende umane». (Cfr. G. Sacerdoti Mariani, Il “verbo” della Costituzione, in G. Sacerdoti Mariani, A. Reposo, M. Patrono, Guida alla Costituzione degli Stati Uniti d’America. Duecento anni di storia, lingua, diritto, 2a ed., Sansoni, Firenze, 1991, p. 33.)
Avendo da un lato il modello americano (una Costituzione di pochissimi articoli), dall’altro testi ridondanti, pieni di parole che pretendono di disciplinare tutto, la Costituzione italiana dimostra un sapiente equilibrio tra queste due concezioni, né troppo breve, né troppo lunga, e disciplina in dettaglio alcune cose importanti (specie i diritti), ma in altri punti lascia alla maggioranza parlamentare e alla giurisprudenza costituzionale il compito di adattare e fare evolvere il diritto e, ovviamente, non solo il diritto ma anche la società. È stata concepita perciò come un testo destinato a durare a lungo, proprio perché composto non da regole minuziose, ma soprattutto da apposizioni di principi generali. [V. in particolare U. De Siervo (a cura di), Scelte della Costituente e cultura giuridica, 2 voll., il Mulino, Bologna, 1980.] Una opposta concezione – lo dico incidentalmente – emerge viceversa nella riforma del Titolo V approvata nel 2001: quello che il costituente americano scolpisce con poche icastiche parole, da noi occupa pagine di regole spesso incomprensibili (e il testo bocciato dal referendum del 2006 non era migliore).
L’equilibrio e la sapienza dei Padri fondatori ha origine nel diverso clima politico, di cui dicevo poc’anzi, ma anche nel fatto che nell’Assemblea costituente sedevano, in rappresentanza delle diverse culture (liberali, azionisti, socialisti, comunisti, cattolici), persone come De Gasperi, Orlando, Nitti, Perassi, Croce, Martino, Ruini, Terracini, Sturzo, Basso, Jemolo, Nenni, Pertini, Laconi, Lussu, Calamandrei, Mortati, Togliatti, La Malfa, Dossetti, La Pira, Tosato...
Ci si spiega allora perché il testo abbia retto l’usura del tempo, al punto da configurarsi addirittura, per tantissimi anni, come un tabù, fino a che non si è capito che, in effetti, anche una Costituzione così bella può essere cambiata in certe sue parti, pur essendo considerata in Italia come all’estero una delle più significative del moderno costituzionalismo.
I suoi principi invero sono stati oggetto di studio in varie parti del mondo, e molti Paesi che si sono dati una Costituzione dopo il 1948 ne hanno riprodotto gli stilemi o addirittura, anastaticamente, alcune disposizioni.
Un esempio per tutti è rappresentato dall’articolo 3, comma 2, in virtù del quale l’eguaglianza formale della legge, sancita al comma 1, deve venire integrata e può venire superata dall’obbligo della Repubblica di rimuovere «gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo articolo è stato letteralmente clonato nell’articolo 9, comma 2, della Costituzione spagnola e ha ispirato altre Costituzioni successive. In esso si traduce il superamento dell’eguaglianza ottocentesca di cui parla Anatole France ne “Il giglio rosso”, quella «maestosa uguaglianza della legge, che permette al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, di mendicare per le strade e di rubare il pane». Un nuovo modo di concepire l’eguaglianza, dunque, fatto proprio (seppure con diverse modalità e rationes) anche dal costituzionalismo liberal-democratico nord-americano, dopo la guerra civile, soprattutto col New Deal di Roosevelt e la “Nuova Frontiera” di John Kennedy.
L’originalità del testo del 1948 sta anche in altre parti, come nella formula del decentramento, con la quale si è cercato di conciliare più anime che convivevano nell’Assemblea: quella cattolica, vocata a sostenere la liberà municipale; l’anima statalista, che permeava altre forze politiche (dai liberali ai comunisti); l’anima federalista ispirata all’insegnamento di Cattaneo. La soluzione “regionalista” di compromesso aveva un precedente in Spagna con la Costituzione del ’31, ma fu nondimeno la prima sperimentazione duratura, tant’è che in seguito, nel ’78, gli spagnoli guardarono all’Italia per introdurre il loro modello di regionalismo differenziato oggi tanto in auge, al punto da essere stato a sua volta copiato da noi, nel 2001, con la nuova formula dell’art. 116, comma 3, e la proposta delle “velocità diverse” per lo sviluppo del decentramento.
Nel 1948, il costituente ha scelto una strada a metà fra il federalismo e l’accentramento di stampo francese-napoleonico, cercando di evitare scelte troppo drastiche e foriere di disequilibrio. Sono convinto che il decentramento non è un valore in sé: è uno strumento per attuare la democrazia o per non attuarla. Ci sono modelli accentrati che funzionano bene (penso a quello francese o anche a quello inglese, fino alla devolution di T. Blair) e funzionano bene pure modelli decentrati, come la Svizzera, gli Stati Uniti o la Germania. Ma nei sistemi decentrati spesso è proprio la Federazione (non gli Stati membri) a garantire i diritti. Negli USA degli anni ’50, un governatore del sud poteva invocare la democrazia nel senso più ristretto, affermando (più o meno): «dato che il 51% degli elettori (bianchi) dice che i neri devono stare fuori dalle scuole; siccome nel nostro Stato siamo democratici; poiché in democrazia decide la maggioranza, ebbene, i neri stiano fuori dalle scuole». Il decentramento può tirarsi dietro anche questi paradossi. Di solito non è così: esso avvicina i cittadini al potere e permette un controllo maggiore, ma non rappresenta una finalità, bensì è strumentale all’uso buono o cattivo che se ne fa.
In materia di organizzazione dello Stato, l’ordine del giorno Perassi ha dato il via libera a una forma di governo parlamentare, escludendo il modello presidenziale (patrocinato, ad esempio, da Tosato). Anche in questo campo bisognava operare una scelta, ed è logico che, in un contesto storico-politico e con un clima culturale così diverso da quello degli Stati Uniti, il presidenzialismo suscitava il timore del ripetersi di esperienze autoritarie.
Non è però nella forma di governo parlamentare che risiede il vizio dell’ingovernabilità del Paese. È nel come è stata interpretata: ci sono forme di governo parlamentari, come quella del Regno Unito, che funzionano bene, come pure ci sono forme di governo presidenziali o semi-presidenziali, come quella francese, che funzionano; in altri casi, non funzionano bene né i governi parlamentari, né quelli presidenziali o semi-presidenziali. Non è dato perciò riscontrare un’equazione parlamentarismo = ingovernabilità, presidenzialismo = governabilità. Il problema è come si attuano i modelli che la scienza comparatistica e costituzionalistica, ma prima ancora l’esperienza, ci propongono. Non accusiamo la Costituzione di aver fatto una scelta di ingovernabilità; accusiamo semmai chi non ha saputo far funzionare, attraverso la legislazione elettorale, i regolamenti parlamentari, le convenzioni costituzionali, il fair-play politico, la legislazione sui partiti, ecc., un modello caratterizzato da un Capo dello Stato neutrale e da un Governo collegato al Parlamento dal rapporto di fiducia. Un modello, che con opportune misure sub-costituzionali altrove opera con successo, assicurando al contempo rappresentanza e governabilità.
Ancora, il costituente si è dimostrato preveggente nell’introdurre la giustizia costituzionale. Come nell’esperienza americana o austriaca, occorreva un custode per la Costituzione, perché avere una Costituzione rigida non serve a nulla se manca chi garantisca che il legislatore non la violi, deviando dai suoi principi e violandone le disposizioni. La scelta è stata però originale: né il modello di giustizia costituzionale austriaco, inventato da Kelsen negli anni ’20 e attuato nella Costituzione austriaca dell’epoca, né quello americano, dove tutti i giudici possono disapplicare la legge incostituzionale. La Costituzione italiana ha optato per una strada intermedia: i giudici non possono disapplicare la legge, ma se hanno un dubbio sulla sua costituzionalità devono rimettere la questione alla Corte costituzionale: una Corte, che si è tradotta nel vero artefice del rinnovamento legislativo, prima facendo pulizia di tutte le leggi dell’epoca liberale e soprattutto fascista, che limitavano i diritti, poi operando sapienti bilanciamenti di valori spesso contrapposti (vita del nascituro e salute della madre, lavoro e impresa, diritti di proprietà e diritti sociali, ecc.), supplendo a un legislatore spesso inerte. Il sistema rappresenta un’invenzione dei nostri Padri costituenti, ed è stato imitato dal Grundgesetz tedesco, poi da molte altre Costituzioni, compresa quella spagnola, da alcune dell’Est d’Europa, e ora anche da alcuni Stati del Messico (Sulla genesi v. G. D’Orazio, La genesi della Corte costituzionale, Comunità, Milano, 1981; sull’esportazione, da ultimo C. Astudillo Reyes, Ensayos de justicia constitucional en cuatro ordenamientos de México: Veracruz, Coahuila, Tlaxcala y Chiapas, Unam, México, 2004).
Come è noto, la Costituzione, tra gli istituti originali, ha inoltre introdotto il referendum, quale correttivo della democrazia rappresentativa. L’attuazione fu tardiva: occorre infatti attendere gli anni ’70 perché la legge che ne stabilisca le regole sia approvata. Il referendum di cui parla l’art. 75 della Costituzione è abrogativo, caso unico al mondo; in tutti gli altri Paesi i referendum sono consultivi o propositivi, e non abrogativi, però il modello ha funzionato fino agli anni ’90, quando l’eccesso di richieste ha disamorato i cittadini, allontanandoli da questo strumento.
Potrei continuare con altri esempi di soluzioni originali a suo tempo introdotte, che hanno dimostrato di poter funzionare per decenni, facendo avanzare il Paese. Per valutarne l’efficacia, in ogni caso, occorre guardare a esse non con gli occhi di oggi, ma con quelli degli anni ’40, per capire se allora ci siano stati errori nell’impianto; ovviamente, non alludo a errori rispetto a parametri di giustizia o a valori metafisici, ma a impostazioni sbagliate secondo canoni tecnici empiricamente verificabili.
Sono convinto che su un punto (e solo o quasi su esso) i costituenti non hanno fatto bene: mi riferisco all’articolo 21, sulla libertà di informazione. Questa disposizione assicura infatti la libertà di manifestazione del pensiero, mentre non garantisce la corretta formazione del pensiero, nel presupposto (evocato da Esposito e Mortati) che il pensiero sia incoercibile. Come scrive Paladin, si tratta di un articolo che guarda al passato, e principalmente si preoccupa di rimuovere i limiti alla stampa posti dal fascismo [V. in particolare L. Paladin (a cura di) La libertà d’informazione, Utet, Torino, 1979.] Ma è un articolo che ha dimenticato Goebbels, ministro della propaganda nazista, Stalin, e il Minculpop. Forse che costoro non riuscivano a convincere le masse attraverso la radio, la stampa, le adunate oceaniche, e così via? Il pensiero è coercibile, come si poteva intuire, anche senza prevedere lo sviluppo della televisione, semplicemente guardando al tragico recente passato, soprattutto all’uso della radio, valutando quanto fosse servita a mobilitare le masse in Russia, in Germania, in Italia, in Spagna. Da questo errore prospettico forse è germinata una distorta concezione dapprima del monopolio statale delle teleradiodiffusioni, poi di un duopolio ancor più malato, che lascia poco spazio alla formazione del pensiero, e non solo e non tanto alla sua manifestazione. Dal canto suo la dottrina ha poi contribuito ad accentuare l’indifferenza per il tema della propaganda: dopo il saggio di G. Lucatello La funzione della propaganda politica nello Stato totalitario e la sua organizzazione negli Stati italiano e tedesco, La Garangola, Padova, 1938, anche in Riv. dir. int., 1939-40-41, ben pochi autori (M. Gobbo, G.L. Gardini) si sono interessati a livello monografico di un argomento che viceversa appare centrale in tutte le liberal-democrazie, ma specialmente in Italia, la quale vive una situazione dell’informazione anomala, condivisa sino a pochi anni fa solo dalla Thailandia (e oggi neppure da questo Stato).
A parte la scarsa preveggenza manifestata nell’elaborazione dell’art. 21 (e forse dell’articolo 49 sui partiti politici), non affiorano altri gravi vizi nell’impianto costituzionale; nel campo dei diritti, ad esempio, l’articolo 17, sulla libertà di riunione, le cui garanzie con una celebre sentenza la Corte costituzionale ha esteso anche ai cortei, quali “riunioni in movimento”, attesta la sensibilità dei costituenti per ogni libertà di espressione, tanto che le riunioni sono state rese limitabili solo per «comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica». Ma egualmente si può guardare alla libertà personale, a quella di circolazione, alla libertà di soggiorno, ecc.
C’è tutto, nella prima parte della Costituzione, dedicata ai diritti e alle libertà. Quanto alla seconda parte, là dove si pensa oggi che è labile, toccava alle convenzioni costituzionali e alle leggi disciplinare la materia adeguandone l’interpretazione ai tempi che cambiano.
Quello che non ha funzionato nella Costituzione non è dunque da imputare a ciò che è scritto nel testo, e neppure a ciò che non è scritto, ma alla lettura che se ne è data nel corso del suo sviluppo. La Costituzione italiana, come ogni altra, ha bisogno del sostegno di un clima culturale, ha bisogno che i principi comuni e condivisi che l’hanno originata continuino a vivere nel tempo, che l’etica politica cementi la lotta politica. Perché la Costituzione funzioni, occorre integrarla con regole non scritte di questo tipo, che probabilmente in quegli anni di poesia esistevano e che dopo, nel tempo della prosa, sono venute purtroppo a scemare. Occorre integrarla poi con legislazione e la riforma dei regolamenti parlamentari, tutt’oggi inidonei a fissare un corretto rapporto fra maggioranza e opposizione, e tanto meno ad assicurare la funzionalità dei lavori della Camera o del Senato.
Quello che resta per lo più salvo è comunque la prima parte, dedicata ai diritti, dove (a parte l’art. 21), la lungimiranza del costituente e la sapiente opera della Corte costituzionale hanno adattato il testo alle esigenze più attuali. Ci sono peraltro due settori, riguardo ai quali occorre forse riflettere sull’inadeguatezza del testo, imputabile a contingenze non prevedibili allora.
Uno è il collegamento dei diritti alla cittadinanza. Nel 1948, dopo l’immane conflitto, nulla poteva indurre a immaginare l’abbandono del criterio di cittadinanza. Oggi, a ben vedere, il criterio di cittadinanza appare veramente obsoleto. Collegata alla nascita dello Stato nazionale decretata con la pace di Westfalia, l’idea della cittadinanza e l’appartenenza a un’entità forgiata sulla base di frontiere nazionali quale status per il godimento dei diritti, in diversi momenti è stata accantonata a favore di altri criteri, in particolare la produzione del reddito. Addirittura, nel “fascistissimo” Testo unico del 1934 che conteneva la Legge comunale e provinciale, il diritto di visione degli atti regolamentari era concesso ai contribuenti del Comune, cioè a chi produceva un reddito, non ai cittadini in quanto tali. Di fronte ai fenomeni migratori, la cittadinanza è un concetto che va rivisto, anche in Costituzione; la riflessione è comune a tutti gli ordinamenti, non solo a quello italiano, e va di pari passo con un’altra esigenza: la riscrittura del concetto di sovranità.
Dopo il 1948 è arrivata l’Europa, che la Costituzione naturalmente ignora, disinteressandosi della dislocazione della sovranità fuori dai confini nazionali, continuando a far leva su un’idea di sovranità che viene erosa dal basso con l’attribuzione di maggiori competenze alle Regioni, e dall’alto con l’attribuzione delle decisioni su interi settori strategici all’Unione Europea.
Cittadinanza e sovranità rappresentano due pilastri nella costruzione dello Stato moderno e della dommatica a esso relativa. In relazione a essi, la Costituzione sente l’usura del tempo non per colpa dei Padri costituenti ma per l’emergere di nuove non prevedibili evoluzioni.
Un ultimo profilo ignorato dai costituenti ma – cosa assai più grave – anche dal potere di revisione e dal legislatore, riguarda l’ipertrofia legislativa, l’accavallarsi di leggi, speciali, particolari, settoriali, il caos normativo che getta nell’assoluto sconcerto il cittadino che si accosta ad esse, come denunciava Uberto Scarpelli. Non si tratta di un problema solo italiano, ma che in Italia è particolarmente grave. Una legge oscura (V. il libro di M. Ainis intitolato La legge oscura: come e perché non funziona, 2ª ed., Laterza, Roma, 2002), rappresenta una illegittima e incostituzionale delega di potere, una violazione del principio di separazione dei poteri, perché se a decidere non è il legislativo, decidono in sua vece, evidentemente, il potere esecutivo, la burocrazia, oppure il potere giudiziario. In questo campo, la Costituzione spagnola è stata preveggente, contemplando un articolo a tutela della certezza del diritto. Si tratta di un tema centrale, avvertito dai cittadini ma ignorato dalla classe politica come lo fu dai costituenti italiani, i quali però operavano in un clima in cui il riferimento era ai Parlamenti ottocenteschi, chiamati a scrivere, come scriveva Voltaire, «poche e concise leggi» e che quindi non potevano prevedere la profluvie legislativa che ci avrebbe sommerso negli anni successivi. In conclusione, senza enfatizzare l’intangibilità del testo, sono convinto che, neppure, esso sia totalmente da riscrivere. Tutt’altro: nella sua struttura portante, la Costituzione italiana è considerata da tutti i comparatisti del mondo, se non la più bella, una delle più belle, ed è un merito di quei nomi citati sopra l’averci consegnato un testo che ha consentito all’Italia di svilupparsi democraticamente per sessant’anni.

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